La Mortadella Bologna: Le prime testimonianze scritte… e non solo

Le prime testimonianze

La mortadella Bologna ha rappresentato per molti secoli nell’immaginario collettivo una delle espressioni più smaglianti dell’allegoria non soltanto alimentare della città delle Due Torri. Ma, pur essendo un salume di eccellenza, riservato ai ceti privilegiati e apprezzato ovunque, grazie anche ai viaggiatori stranieri che ne magnificarono l’eccellenza nei loro diari, il suo smercio fino alla metà dell’800 si indirizzò soprattutto al consumo locale e a quello dell’area padana. È comunque vero che un limitato quantitativo di mortadelle veniva esportato nell’Italia centrale e anche in alcuni Paesi europei, specie in Francia. A partire dalla seconda metà del secolo XVII qualcuna cominciò a varcare anche l’Atlantico per approdare in America, in particolare nelle Antille Francesi, come testimonia il frate domenicano parigino Jean Baptiste Labat, vissuto a lungo nell’isola della Martinica e trattenutosi per qualche tempo a Bologna all’inizio del ’700.

BENEDETTO CHI NE FU L’INVENTORE: IO BACIO E ADORO QUELLE VIRTUOSE MANI

A partire dal ’500 molti letterati ed eruditi italiani e stranieri intrecciarono nelle loro opere un autentico peana in lode dell’inimitabile insaccato petroniano. A dare fiato alle trombe è, alla metà del secolo, l’umanista milanese Ortensio Landi, viaggiatore e buongustaio, giù studente dell’Alma Mater e quindi buon conoscitore della gastronomia bolognese, che immortalò la bontà e le virtù quasi taumaturgiche dei salumi petroniani. Soprattutto delle mortadelle, che allora venivano anche chiamate “salciccioni”, un termine riecheggiante la parola francese saucissons, che distingueva anche l’insaccato felsineo, più noto come le saucisson de Bologne dit la “mortadelle.’

Scrive il Landi: “…a Bologna si fanno i salsiccioni migliori che si possano gustare. Si mangiano crudi, si mangiano cotti a tutte le ore del giorno. Essi aguzzano l’appetito e fanno sembrare il vino saporitissimo anche se è svanito. Benedetto chi ne fu l’inventore: io bacio e adoro quelle virtuose mani. Ne solevo portare sempre in saccoccia per aguzzare la voglia del mangiare se, per sventura svogliato mi ritrovavo”.

Altrettanto entusiastico è il panegirico che ne tesse Andrea Calmo, attor comico e scrittore veneziano del sec. XVI. Dopo aver definito Bologna “mare di studiosi, luogo fruttifero pien de salcizzoni e sopresse, con le mior torte de Italia e vin gustoso e stomegal”, aggiunge: “l’è forza che diga, che rasona e che predica de quelle salcizze e de quelle carni tanto preziose, tanto savorose e tanto ben conzate hor chi no ghe piaze, chi no che sa bon, chi no talenta stanziar in Bologna, è privo del gusto, del sentimento e de ogni iudizio”.

Non meno lusinghieri sono i versi con cui il grande poeta popolare Giulio Cesare Croce, vissuto fra il sec. XVI e il XVII, esalta gli insaccati suini petroniani. Ma essendo nato nel contado bolognese, a S. Giovanni Persiceto, non poteva che tesserne le lodi. Ecco comunque i suoi versi, pressoché dimenticati, che figurano nell’operetta La sollecita et studiosa Academia de CoIosi, dove il Croce sentenzia che i veri intenditori, gli appassionati della buona tavola, “San ch’in Bologna si son sempre usati i miglior salciccion ch’in tutto il mondo si faccino e da ognuno son celebrati”.

Quasi del tutto sconosciuto è anche l’inno alla tradizione salumaria bolognese, in particolare ai “salciccioni”, contenuto nel commento del Grappa (pseudonimo di Angelo Nannini) sulla canzone cinquecentesca di Agnolo Firenzuola “In lode della salsiccia”, pubblicata nel 1547. L’autore non usa mezzi termini per esaltare la mortadella, amata da tutti i ceti sociali e culturali più elevati senza distinzione di sesso: “O bolognesi, i vostri salsiccioni, massime messi in grasso e buon budello, non sono essì proprio un cibo da poeta.? Tutti i prelati, ricchi è signor buoni, gli uomini dotti e quei c’han buon cervello, ogni bella e gentil donna discreta, spendon la lor moneta più volentier né vostri buon cotal salumi…”

RINOMATE IN TUTTO IL MONDO PER LA LORO PRELIBATEZZA

Anche il viaggiatore fiammingo Andreas Schott, nel suo Itinerario italico, uscito nel 1622, scrive che le mortadelle e i salumi bolognesi “non hanno pari in tutto il Paese”. Gli fa eco il Nouveau voyage d’Italie del francese Francois Deseine, pubblicato alla fine del sec. XVII, dove si legge che “gli insaccati di Bologna sono rinomati in tutto il mondo per Ia loro prelibatezza”.

Alla fine “600 la mortadella suscitò l’entusiasmo della Principessa Palatina e di sua nipote, duchessa di Berry, figlia del reggente di Francia Lungi Filippo, nel 1718.

Elogiativi sono anche i giudizi di altri due viaggiatori transalpini del sec. XVIII: Charles De Brosses, presidente del Parlamento di Borgogna, e Joseph Jérome de Lalande, il frate domenicano appena ricordato. Il primo esalta i “salsiccioni bolognesi”, che egli gustò” in una maniera favolosa”; il secondo definisce” di straordinaria finezza” i salumi e specialmente le mortadelle, “un tipo di ottime salsicce di stupendo sapore”. Ma sulle sue impressioni avremo modo di ritornare più avanti.
Anche il poeta e romanziere francese Théophile Gautier, in visita a Bologna verso la metà del secolo, non manca di tramandare ai posteri una sua personale esperienza legata al cibo: «A Bologna scendemmo ad un albergo qualunque ove, mercè una mimica commovente, ci riuscì di ottenere una cena in cui spiccavano la mortadella, la bondiola ed il salame di Bologna, come richiedeva il colore locale».
Fra gli apologeti della mortadella non manca Ricardo, il grande economista e parlamentare britannico, quello della “rendita ricardiana”, giunto sotto le Due Torri nell’autunno del 1822. Dopo avere assaggiato a Milano una salsiccia, che definisce tanto insulsa da non desiderare di mangiarne mai più nella sua vita, rivolge il suo pensiero alla regina degli insaccati bolognesi con un’affermazione lapidaria: “l’autentica mortadella di Bologna è tutt’altra cosa”.

Ma ad offrire l’immagine più fedele e completa della tradizione alimentare bolognese nella prima metà dell’800 è Antoine Claude Pasquin, più noto con lo pseudonimo di Valéry, scrittore, giornalista ed erudito francese, poi direttore della Biblioteca Reale di Versailles, che sosta nel 1826 a Bologna. Amico dell’insigne gastronomo Caréme e sensibile alle seduzioni della buona tavola, coglie l’occasione per assaporare le specialità locali e verificare dal vivo la fama della cucina petroniana. L’esperienza si rivela positiva e suscita l’entusiastico apprezzamento dello scrittore transalpino come confermano le sue impressioni apparse nel 1833 nell’Indicatore italiano, ristampato a Bruxelles nel 1842 col titolo L’Italie confortable (ne fu anche pubblicato un corposo estratto dedicato a Bologne, Ferrare, Modène, Parme et Plaisance).

“Bologna – scrive il Valéry – è una delle città italiane dove si mangia di più e meglio. l suoi salumi grossi e piccoli (mortadella e cotechini) hanno una rinomanza europea”.

Sulla geografia della mortadella, attraverso i giudizi degli scrittori italiani e stranieri lungo un arco di tempo che ha superato i cinque secoli e perdura fino ad oggi, ci soffermeremo più oltre.
Ora è giunto il momento di ripercorrere il cammino esaltante dalle probabili origini fino ai giorni nostri della mortadella o, più semplicemente della “Bologna”, come viene definita in varie parti d’Italia, oppure Balony o Baio hey, come la chiamano gli americani, vale a dire il simbolo antonomastico che, da un millennio o forse due, presidia la buona tavola bolognese senza Soluzione di continuità.