Anche i frati e le monache amano la Mortadella

Anche i frati e le monache amano la Mortadella

Lo stereotipo del frate (o della suora) amante della buona tavola e abile preparatore di succulenti manicaretti, di una «buona forchetta», insomma, tale da non sfigurare di fronte ai più smaliziati buongustai, ha sempre affascinato e stuzzicato la fantasia popolare.

Naturalmente si tratta in gran parte di un luogo comune, ma come in tutte le credenze popolari c’è anche qui un fondo di verità. Nei secoli passati, infatti, all’interno dei chiostri non è quasi mai mancato il cibo, mentre per molti, specie durante i periodi di carestia, lo stesso pane quotidiano diventava un miraggio. Ma c’ è di più: le belle tavole che venivano imbandite nei conventi in occasione delle frequenti ricorrenze religiose o della presenza di ospiti importanti hanno contribuito ad accreditare nell’immaginario collettivo la figura del frate crapulone, soprattutto quando a supportarla fisicamente c’era anche una buona «stazza».

Quale ruolo avevano i salumi, soprattutto la Mortadella, nel vitto monastico? Certamente importante. Anche se, non bisogna mai dimenticare che la Mortadella costituiva un genere di lusso la cui comparsa sulle tavole dei conventi poteva stonare con i valori di sobrietà della vita claustrale. Proprio per questo il raffinato insaccato più che nel menù di tutti i giorni entrava in scena soltanto in occasione di particolari eventi festosi e ricorrenze religiose.

Ecco alcune testimonianze.

Tra il 1750 e il 1761 uno studente del noviziato di S. Ignazio dei Gesuiti tenne, giorno per giorno, un diario con la meticolosa descrizione della vita di comunità, annotando dettagliatamente anche i cibi consumati quotidianamente, insomma quel che passava il convento. Si tratta di ben 122 quadernetti conservati alla Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna.

Nel pranzo dell’Epifania dopo una «minestra di pasta», un antipasto di «uvara di vacha» (mammella vaccina) con salsa, e uno a base di tacchino arrosto con pasticcetto ripieno di paste sfogliate, arrivò in tavola una bella fetta di Mortadella con una porzione di cappone, Il tutto concluso da un “post pasto” comprendente mostarda con un mostacciolo di pasta di mandorle, sedano, formaggio grana.
Forse la Mortadella riapparve alla ribalta per la cena in quanto nelle vecchie carte si legge che venne servita una porzione di «roba fredda avanzata dal pranzo».

Un quadro ben più esauriente e sfaccettato del vitto ammannito nei conventi bolognesi dei secoli passati ci è fornito da un Libro dei ricordi del monastero di S. Michele in Bosco, conservato all’Archivio di Stato di Bologna. Da esso si può seguire, anno per anno, tutta la vicenda alimentare (ma non solo quella) del cenobio olivetano dalla metà del ’600 agli esordi del ’700.
Nel giorno del Corpus Domini, prima di scendere in città su carrozze “di diversi cavalieri amici” per partecipare alla processione solenne, i monaci consumavano, assieme ai nobili ospiti, un’appetitosa colazione a base di Mortadella e salame con pane e vino.

Dalla fine del sec. XVII, ogni anno, iniziando dal martedì precedente la ricorrenza dei santi Pietro e Paolo, “in refettorio annota il cronista si principia a dare la minestra, una piattanza et un antipasto che deve essere non tanto ordinario come la Mortadella”. In parole povere scegliendo di mettere in menù la Mortadella i monaci, oltre a non passarsela male, dimostravano di essere anche dei buongustai.

ALLE AUTORITÀ I FRATI REGALANO MORTADELLE

Durante il mese di agosto, per alleviare il fastidio della gran calura, anche il regime alimentare degli Olivetani subiva un radicale mutamento. La seconda colazione infatti si apriva con due fette di melone sugoso seguite da due antipasti spesso a base di salumi tra cui la squisita Mortadella, due pietanze e una fetta di torta.

Prima della fine del mese venivano invitati a S. Michele in Bosco il Bargello e gli sbirri dell’Arcivescovo che potevano deliziarsi con melone «di pasta gialla» e profumata Mortadella, seguiti da archeste (cioè rigaglie di pollo), zuppa di trippa, lesso di vitello, polpettone, pollo arrosto, torta, frutta e formaggio.

«Due otre giorni passato S. Martino annota ancora il memorialista si mettono tre porci almeno in casa per fare le Mortadelle da regalare per Natale eli porci si pigliano almeno da 10 pesi l’uno (90 chili), servendo poi li medesimi per far salsicce, salami e per cavarne tre o quattro pietanze che servono per fare gli antipasti del carnevale d’Avvento e gli ossami per la servitù».
L’utilizzazione come strenna natalizia del ricercato salume (nella versione cruda destinato alla successiva cottura da parte di chi lo riceveva perché i monaci non possedevano stanze per la stufatura) conferma l’eccezionale valore che veniva attribuito alla Mortadella, quello appunto di “cibo da signori”. Assieme al prelibato insaccato gli Olivetani, seguendo una vecchia consuetudine, omaggiavano le autorità con altri presenti “commestibili» in gran parte di produzione propria.
Ben dodici Mortadelle andavano al cardinal Legato, sei al Vicelegato e quattro al Vicario Generale dell’Arcivescovado. Anche al padre abate di San Michele, secondo una vecchia consuetudine, spettavano belle Mortadelle.

Nell’approssimarsi al Natale l’abate di S. Michele era solito invitare a desinare in refettorio il bargello con tutti gli sbirri del Vescovato ai quali venivano somministrati vari piatti fra cui tre antipasti, spesso comprendenti alcune fette di succulenta Mortadella. Prima di lasciare il monastero di S. Michele in Bosco occorre soffermarsi per qualche istante su alcune liste di vivande preparate in occasione di importanti solennità religiose.

Cominciamo con il pranzo di Natale che nel 1708 si rivelò un vero tripudio di ghiottonerie. Ogni commensale ricevette due antipasti, tra cui uno a base di Mortadella, e altre specialità.
La Mortadella fa la sua apparizione anche nella lista di un pranzo che gli stessi monaci olivetani, quelli però che dimoravano nello scomparso convento di S. Bernardo in via Arienti, imbandirono all’inizio del sec. XVII. Venne infatti servita assieme al prosciutto nel primo servizio freddo o di credenza accompagnata da fichi e fette di melone, come voleva la tradizione.

Come si può notare la Mortadella nei secoli passati si trovava a suo agio anche in convento.